Recensione a C. Molinar Min, G. Piatti (a cura di), L’impersonale – si pensa, si sente, si crea Philosophy Kitchen III, n. 5

RECENSIONI / Lorenzo Di Maria /


Philosophy-Kitchen

Dedicare un volume di una rivista contemporanea, come Philosophy Kitchen, al tema dell’impersonale è come realizzare un reportage di guerra: i numerosi interventi contenuti in questa quinta uscita, datata settembre 2016, sono veri e propri racconti documentari di uno ‘scontro disarmato’ tra il pensiero novecentesco (da Husserl e Bergson ad oggi) e il soggetto metafisico di matrice moderna, la centralità della persona umana. Il pensiero non dispone di armi valide per affrontare la battaglia: le definizioni, come le pistole, implicano una uccisione. Qui si tratta – per citare Deleuze, uno degli autori più sfruttati in questi reportage – di una vita. È dunque il tentativo che non può non restare tale di oltrepassare i limiti del soggettocentrismo occidentale, di scavare al di sotto di una superficie ridotta ormai a patina sottilissima benché dura come la roccia. È l’epoca in cui viviamo a chiedercelo, ad imporre una riflessione sull’impersonale come via d’uscita dall’impantanamento dualistico-metafisico che continua a caratterizzare l’esodo – straordinariamente rapido nella sua lentezza costitutiva – dalla modernità.

Ma secondo quale significato l’impersonale viene trattato in queste pagine? Istantanee di questo percorso ci sono fornite, in apertura, dall’editoriale di Carlo Molinar Min e Giulio Piatti che chiariscono fin da subito che il modo d’intendere il termine ‘impersonale’ non è quello comune: non è l’accezione negativa con cui è utilizzato in ambito etico, dove impersonale sta sempre ad indicare freddezza, mancato coinvolgimento in un determinato ambiente; non è neanche l’accezione, al contrario, positiva con cui è utilizzato nelle scienze, dove è sinonimo di obiettività nella misurazione. Niente di tutto ciò. «Riflettere sull’impersonale – commentano i due curatori – significa regredire, positivamente, a un momento genetico, coincidente con un processo di individuazione (biologica, trascendentale, affettiva, artistica, politica, ecologica ecc.) non ancora né soggettivo né oggettivo, ma capace di articolare entrambi i momenti nel corso della sua genesi». È, insomma, la ricerca di «un comune orizzonte, non (più) personale» (p. 6).

I diversi interventi presenti in questo numero di Philosophy Kitchen ci mettono in contatto con pensatori eterogenei ma tutti impegnati in questo lavorio incessante, o se si preferisce, arruolati nella lotta ad un egotismo trionfante nonostante il suo anacronismo. Vale la pena dunque sintetizzare tutti i contributi, cercando di inquadrare come ognuno di essi abbia saputo dare un taglio diverso alla questione e rintracciare un significato peculiare di impersonale.

Il primo saggio è il contributo di uno dei protagonisti più influenti del dibattito circa l’impersonale: Roberto Esposito. E in L’impersonale, tra persone e cose abbiamo un quadro sintetico del suo pensiero sull’argomento. L’obiettivo è quello di decostruire l’apparente ovvietà che contrappone persone e cose. Uno sguardo più attento, infatti, mostra come la persona sia giuridicamente tale solo in virtù del possesso di cose. Il che implica che ad ogni personalizzazione deve corrispondere sempre una depersonalizzazione: nel capitalismo, se il borghese diventa persona, il proletario è depersonalizzato in forza-lavoro. La soluzione sta dunque nel rovesciare questa gerarchia fondata sul possesso, attivando un contro-movimento di personalizzazione delle cose stesse. Se queste infatti hanno dismesso la loro sostanzialità vitale di res per divenire oggetti ‘a disposizione’ di un soggetto, la loro emancipazione ora passa per il loro uso: non ci sono solo merci ma anche doni, beni comuni e oggetti tecnici, come i computer o le biotecnologie, rappresentazione perfetta della commistione persona-cosa/corporeità. Attraverso essi, per la prima volta dall’età arcaica, le cose sembrano parlarci: «è tempo di prestare loro ascolto provando a dare loro una risposta diversa da quella appropriativa che ha caratterizzato troppo a lungo la nostra civiltà». È qui che si inserisce la visione che Esposito ha dell’impersonale: un paradigma che è «in relazione e non in opposizione a quello di persona» (p. 18), un movimento critico interno finalizzato ad aprire una ‘breccia’ nel soggettivismo prevalente.

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