Recensione a G. Agamben, Che cos’è la filosofia? Quodlibet 2016

RECENSIONI / Matteo Antonio Acciaresi /


G. Agamben, Che cos’è la filosofia? Quodlibet 2016

«Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinatamente che una cosa sola: che significa “vi è linguaggio”, che significa “io parlo”?» ‒ così Agamben, nella prefazione per l’edizione francese (Payot 1989) di Infanzia e storia. Non sembra illegittimo dire che, a 27 anni di distanza, Che cos’è la filosofia? non solo si ponga sulla medesima linea e nel medesimo orizzonte aperti dalla radicalità di quell’interrogativo, ma anche lo sviluppi ulteriormente e ulteriormente si immerga in esso ‒ tanto che verrebbe fatto di pensare che, da 27 anni a questa parte, l’intero corpus agambeniano (anche, e forse soprattutto, la serie di Homo sacer) si sia rivolto alla questione capitale del linguaggio, per poi giungere ad una sorta di exemplum (l’opera che, appunto, è qui in discussione) in cui la questione del linguaggio, dell’esperienza di esso (del suo «aver-luogo») si fonde e confonde finalmente con quella della filosofia e dell’ontologia, conferendo così una luminosità ulteriore all’opera pregressa dell’autore. Non che, nel pensiero di Agamben, non fosse chiara e limpida la centralità costitutiva della questione del linguaggio, s’intenda (basti pensare a testi esplicitamente chiave in proposito, come Il linguaggio e la morte, Infanzia e storia, Stanze, Signatura rerum ‒ ma anche, più velatamente, ad ogni altra sua opera); ma, in Che cos’è la filosofia? (che vede, forse non a caso, in Platone e Aristotele, i padri indiscussi della filosofia occidentale, i suoi interlocutori privilegiati), la questione è, potremmo dire, compiuta. Qui la filosofia è, in quanto è evento ontologico di linguaggio («“musica suprema” (Phaid. 61a)», p. 142) ‒ ed è su questo che l’intero testo, inteso come raccolta di cinque scritti, si edifica. E non è certo un caso se, a differenza degli altri quattro scritti (risalenti agli «ultimi due anni», p. 7), il primo di essi, Experimentum vocis (pp. 11-45), sia una rielaborazione, come espone l’Autore stesso nella sua Avvertenza al testo, di «appunti della seconda metà degli anni Ottanta del XX secolo» (ibid.), e appartenga dunque al contesto «in cui sono nati La cosa stessa, Tradizione dell’immemorabile, *Se. L’assoluto e l’Ereignis e Experimentum linguae» (ibid.): ponendo il primo scritto dei cinque tra gli anni ’80 e il 2016 (cioè in entrambi), infatti, Agamben sembra ribadire retrospettivamente l’imprescindibilità e la costitutività della questione capitale del linguaggio ‒ sembra ribadire: ‘Questa è la mia questione, oggi come ieri’.

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