Nota su La decisione del desiderio, di Silvia Lippi, Mimesis 2016

NOTE / Luciano De Fiore /


Il tema del desiderio è al cuore della riflessione di Jacques Lacan. Il che spiega anche il fiorire continuo di scritture sull’argomento, anche in Italia e negli ultimi tempi. C’è chi è attratto in particolare dal desiderio che decide, imponendo la propria potenza inesausta; chi dall’impianto teoretico di ascendenze hegelo-kojèviane, per cui non c’è altro desiderio se non il desiderio dell’Altro; chi invece valorizza la fase finale del pensiero lacaniano, nel quale si sconterebbe una qualche eclissi del desiderare stesso, di contro ad un rafforzarsi dell’attenzione per il godimento Uno.

Un qualche distacco dall’incandescenza della materia lacaniana del desiderio mi motiva ancor più a dire qualcosa su questo bel libro. Con il quale Silvia Lippi riesce davvero a mostrare che il desiderio – per Lacan – consiste innanzitutto nel desiderare di sapere di più sul desiderio. E c’è da sforzarsi, perché è un oggetto cangiante, sfuggente e contraddittorio. Forse il grande merito di Lacan, probabilmente la sua intuizione maggiore al riguardo, consiste proprio nell’averne compreso e restituito il carattere proteiforme. Per cui, piuttosto che parlare di una prima teoria lacaniana del desiderio, e poi di una seconda più tarda e più orientata alla jouissance, potrebbe rivelarsi più utile raccogliere insieme le sue diverse inflessioni: non tanto per provare a trovarne la quadra, ma per capire come possano convivere l’una accanto alle altre. Come se Lacan stesso avesse invitato a pensare il desiderio rigorosamente e insieme però liberamente, dipanandone e poi riannodandone più volte i diversi aspetti.

Per cui, per esempio, è finito, rigido, inflessibile e però è anche infinito, aperto sull’illimitatezza – un orcio forato, con la bella espressione che Silvia Lippi riprende dal Gorgia di Platone. Aporetico quindi, e tuttavia figlio e fratello di poros che non è solo indigenza, ma anche rotta, itinerario, modo per. Tenendo da conto il suo non aver oggetto, perché lo ha da sempre smarrito, e insieme invece la sua relazione con l’oggetto, per il tramite della pulsione. Per cui, in una relazione tutta da pensare, chissà che il desiderio non possa esser vissuto, per un verso, come limite al godimento, e per un altro già come godimento proprio in quanto desiderio, secondo una logica che in effetti non potremmo che definire paradossale. Un desiderio che ci apre ed al contempo ci chiude la porta al godimento.

Il volume appare come fosse costituito da due parti. Nella prima sezione, anche chi conosce poco gli scritti di Lacan trova un sussidio prezioso. Vi si legge del debito nei confronti di Freud e di Sartre, delle assonanze con Lévinas e Spinoza. Ma soprattutto si chiarisce fin dalle prime pagine che, trattando del desiderio, ne parliamo. Il primo che emerge è il suo rapporto con la parola. Relazione che lo stravolge necessariamente. Poi, parlandone, non parliamo tout court di piacere. Se – appunto con Spinoza – ci spingessimo a dire che desiderare è l’essenza dell’uomo (o la verità del soggetto, direbbe Lacan), non potremmo mai sottintendere con questo che la nostra essenza generica è il piacere. Del rapporto col godimento, certo, si deve dire. Ma è un rapporto che col piacere non ha molto a che fare.

Cosa dunque desideriamo allora, se non il piacere? L’autrice ricorda con assoluta appropriatezza il morso feroce e ostinato della pulsione di morte, la forza mortifera che pure è lì, nell’origine stessa del desiderio umano. E che si perpetua, se è vero che vi è perfetta equivalenza tra morte e godimento, dal momento che possiamo considerare la morte come la definitiva soddisfazione del desiderio.

Il tono del libro – nella prima parte almeno – è serenamente melanconico. Il desiderio, se non lo si fosse ancora compreso, è nozione che ha a che fare col finito, più ancora che con l’illimitato. Soccorrono le occorrenze e le etimologie classiche del termine, per cui desiderando si è già su un piano diverso rispetto agli astra. Il nostro tema è insomma quella forma paradossale di soddisfazione/insoddisfazione che si rilancia all’infinito, senza nostalgie e senza acquietamenti parziali, destinato – per dirla in lacanese – a scivolare incessantemente sulla catena significante. Perché il desiderio è inesauribile, si nutre di sé e rinasce da sé. È imperfetto in quanto manchevole del suo oggetto, e tuttavia perfetto nella sua reale ed essente privazione.

Da qui l’impossibilità che il desiderio esca da sé e si risolva nella perfezione costituita dal suo proprio soddisfacimento. In altre parole, è perfetto quando non raggiunge la sua mèta, ed è imperfetto, cioè esaurito, quanto l’abbia conseguita – il che per fortuna accade molto difficilmente ed allora, tendenzialmente, la patologia è in agguato.

Anche nella figura del rapporto sessuale, il desiderio mostra come rapporto e separazione non siano che lo stesso. Al dunque, ogni rapporto d’amore, se lo si accetta come non-rapporto, si rivela un modo di accettare e fare i conti con la solitudine.

Rispetto alla seconda parte del libro, raccolta sotto il titolo “La dolorosa dialettica dell’oggetto”, le mie osservazioni si fanno se possibile più confuse. Occorre probabilmente una consuetudine specialistica con i testi di Lacan, ed anche e soprattutto con l’ampia letteratura secondaria, per seguire l’autrice nei suoi détournements, tanto affascinanti quanto vertiginosi.

Un aspetto tuttavia chiama in particolare all’attenzione. Si trova nel capitolo intitolato “Il desiderio e l’al di là del desiderio”. Aspetto che possiamo evocare attraverso un video splendido e molto noto di Bill Viola. Il video si chiama Le deluge. Ve lo rammento in due parole.

Davanti alla ricostruzione del portone di un edificio urbano neoclassico, di recente restaurato, ripreso frontalmente fino al primo piano, incrociano passanti di ogni età e genere. Pian piano, ecco un’accelerazione nei loro passi, lenta ma avvertibile; una concitata alterazione nella loro attitudine; il trasportare chi una sedia, chi un’altra suppellettile, segnali che trasmettono un’inquietudine che si fa ancor più tangibile quando inizia ad essere accompagnata da un rumore prima ottuso, poi sempre più forte. Fin quando la discesa a precipizio per le scale degli abitanti del palazzo precede di pochi istanti una cataratta d’acqua che li raggiunge e travolge, inondando la strada. Si spalancano anche le finestre del primo piano, vomitando cascate spumeggianti.

Poi, lentamente l’acqua perde di violenza e intensità, il rombo si attenua finché tutto finisce.

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