Recensione di M. Biscuso, “Leopardi tra i filosofi: Spinoza, Vico, Kant, Nietzsche”, La Scuola di Pitagora, 2019

RECENSIONI / Morris Karp

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Uscito per i tipi di La Scuola di Pitagora nel 2019, Leopardi tra i filosofi: Spinoza, Vico, Kant, Nietzsche di Massimiliano Biscuso viene ad arricchire il paesaggio degli studi leopardiani dell’ultimo decennio, a cui offre alcune indicazioni di merito e di metodo. Il libro si colloca all’interno di un percorso di ricerca che ha spinto l’autore a dare già diversi contributi alla critica leopardiana, e in particolare si pone in stretto rapporto con un’altra sua pubblicazione uscita nel corso dello stesso anno per la Manifestolibri, Gli usi di Leopardi. Figure del leopardismo filosofico italiano. Come Biscuso spiega nell’introduzione, mentre Leopardi tra i filosofi vuole studiare principalmente il modo in cui Leopardi «elabora la propria visione del mondo dialogando e discutendo con gli altri pensatori, confrontandosi con le loro teorie, riprendendone, sviluppandone o criticandone le proposte» (p. 9), Gli usi di Leopardi si concentra sul modo nel quale il pensiero di Leopardi «è stato recepito e interpretato dai filosofi successivi» (ibid.). A cavallo tra i due progetti, l’ultimo capitolo di Leopardi tra i filosofi si occupa di tratteggiare le linee della ricezione di Leopardi da parte di Nietzsche. Il progetto così articolato viene ad affrontare implicitamente il problema dell’inquadramento storiografico del pensiero di Leopardi, problema che dopo più di un secolo di lavorìo critico rimane ancora apertissimo. In parte ciò è dovuto al fatto che, come ricorda Biscuso, «Leopardi si è posto la questione di quali forme di scrittura scegliere per rivolgersi a un pubblico per lo più superficiale e distratto, abituato a un mercato editoriale inflazionato da libri mediocri e perciò capaci solo di successo effimero» (p. 10). Le alterne vicende della storiografia filosofica hanno poi precluso a Leopardi di trovare un sicuro domicilio nei manuali di storia della filosofia. Se il bando crociano che teneva Leopardi al di fuori dalle porte della filosofia sembra ormai superato, è anche vero che questo è accaduto non tanto perché sia divenuto chiaro in cosa consista il contributo portato da Leopardi al pensiero, ma piuttosto perché si è ormai persa l’aspirazione ad un concetto di filosofia che possa essere utile a qualificare la natura di una meditazione. In assenza di un tale concetto guida, la questione del luogo di Leopardi nella storia della filosofia non può che trovare un terreno malcerto. Con avvedutezza, Biscuso riesce a muoversi su questo terreno, avvertendo fin dall’inizio che il libro non intende «giudicare quanto originale e profonda sia la filosofia di Leopardi» (ibidem) ma piuttosto indagare «il modo in cui egli si è posto dinnanzi ad alcuni vertici della tradizione filosofica e in cui la lezione di questi si è tradotta nella scrittura» (p. 10). Questa indicazione di metodo si accompagna alla precisazione che chiude l’introduzione: «nulla si concede (…) al confronto tipologico e all’individuazione di analogie; tantomeno si ricorre alle categorie di “anticipazione” e “precorrimento”, le quali inflazionano gran parte degli studi sull’argomento, nonostante la professione di fede antistoricista degli autori» (p. 12). È in queste indicazioni metodologiche che si trovano in nuce i pregi della ricerca di Biscuso, che riesce ad avanzare la questione delle fonti di Leopardi e dello stile che modella i loro affioramenti, rispondendo a vecchi problemi con nuove domande. 

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