Recensione G. Leghissa (a cura di), Declinazioni del postumano. Per una nuova filosofia del vivente ANIMAL Studies. Rivista italiana di antispecismo, V, 2017, 15

RECENSIONI / Gregorio Tenti /


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La rivista «Animal Studies» è da anni impegnata nell’attenta diffusione dei temi legati alla questione animale, su cui si sono coltivati alcuni dei migliori sforzi filosofici recenti. Grazie al lavoro di studiosi come Marchesini, Cimatti, Caffo, anche in Italia ritardi e incomprensioni stanno lasciando il posto a una crescente consapevolezza. Occorre ancora, in sede filosofica, approfondire un tema che si ramifica, si ibrida, si intreccia alle lotte della società civile ed è portato a misurarsi costantemente con il senso comune; dunque un vero crocevia del pensiero contemporaneo.

Il nodo gordiano è di natura definitoria e classificatoria: la domanda su ‘che cos’è l’animale’ è posta quasi sempre come il negativo dell’altra, quella che secondo Foucault dispone il pensiero moderno, ‘che cos’è l’uomo’. Se l’umano si è fondato su una scientifica elisione dell’animale che oggi non può più sussistere, sfuggire alla tassonomia implicherà non chiedersi più cosa l’uomo non è, ma cosa ne sarà dell’uomo, una volta reintegrato nel cerchio della natura. Quando l’uomo non è più misura del discorso, parlarne significa già parlare oltre le barriere delle specie. Questo volume di «Animal Studies», Declinazioni del postumano. Per una nuova filosofia del vivente, si pone nella prospettiva del post-umano in tal senso, partendo cioè dalla consapevolezza che ridare realtà alla sfera animale significa rielaborare le discontinuità del vivente.

Le parole introduttive del curatore Giovanni Leghissa riassumono il duplice intento del volume: l’idea di una fondazione critica delle teorie e delle pratiche considerate (o considerabili) come post-umaniste. Il cruciale tratto engagé di questa nuova «spiritualità senza dio» (p. 6) deve trovare conferma nel consolidamento del suo quadro epistemico, per esempio attraverso il superamento definitivo del dualismo tra natura e cultura, ma anche nel chiarimento dell’ispirazione evoluzionista che, secondo il curatore del volume, anima la corrente. La questione si sposta sulla possibilità di un’autofondazione (problema che Leghissa ha indagato a più riprese), sulla necessità dell’uomo di tornare a parlare di sé anche quando non si tratta più di lui. In questo senso la questione animale e le sue pratiche sono il cuore del discorso post-umano, nel tirare la teoria dal lato della prassi (per esempio invitando all’uso performativo di alcuni concetti classici, come quello di ‘specie’) e il trascendentale verso un reale più ampio del soggetto. Un orizzonte che ha le potenzialità, conclude Leghissa, per creare nuove forme di collettivo. La posta in gioco è alta perché, parafrasando Zarathustra, si tratta di approfondire le proprie «virtù» fino a superarsi in esse; e fermarsi troppo presto significherebbe soltanto intensificare l’umano che si voleva oltrepassare.

Il volume si apre con due contributi di Cristina Iuli dedicati a Cary Wolfe, figura cardine del dibattito americano. Il primo articolo consiste in un’introduzione al suo pensiero, ed è necessaria premessa a un’intervista che traccia il percorso fittamente stratificato del teorico americano. Combinando cibernetica di secondo ordine (decisiva nel processo di allontanamento dalla cultura umanista) e filosofia derridiana, la prospettiva di Wolfe si mostra capace di un pragmatismo estremamente avvertito, nel rifiutare ad esempio gli atteggiamenti di velato antropocentrismo o esaltazione astratta della Vita tipici della biopolitica contemporanea. Tra tassonomia e assenza di tassonomia, l’autore di What is Posthumanism? colloca un criterio di ‘affermatività non incondizionata’ di sorprendente presa teorica. Il problema di come attribuire uno statuto comune a sé e alla natura è affrontato, come suggerisce Iuli, dal lato della performatività più che da quello della normatività ontologica, la quale resta invischiata in antichi dualismi. In questi termini, il concetto di ‘ambiente’ corrisponde, al di là di ogni idea di ‘mondo’ o di ‘realtà’, al risultato dinamico di un’autoproduzione che in ogni essere vivente trova una sua forma specifica.

Il saggio successivo, L’idea occidentale di natura, la continuità fra specismo, sessismo e razzismo dell’antropologa e attivista Annamaria Rivera, interpella la disciplina le cui basi sono maggiormente tirate in causa, appunto l’antropologia. Il meccanismo di assoggettamento e reificazione che lega specismo, sessismo e razzismo è rintracciato nei presupposti dell’ontologia dualistica occidentale; nessun altro campo del sapere può dirci effettivamente di più rispetto al dominio dell’alterità, e in questo la trattazione antropologica di Rivera è preziosa. Si potrebbe notare, nel corso della sua argomentazione, la tendenza a proiettare tutte le colpe sulla società occidentale, vista come una sorta di ‘eccezione violenta’. L’assorbimento delle pratiche in apparati rituali e mitologici tipico di altre società, benché prova di una diversa ragione del mondo, non ci sembra però impedire le pratiche stesse di dominio dell’altro (altra specie, altra razza, altro sesso) – solo una diversa (ma davvero più innocente?) legittimazione…

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