RECENSIONI / Davide Sisto /
«Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto». La celeberrima proposizione con cui ha inizio il Neuromante (1984) di William Gibson trascende il semplice gusto letterario per diventare – suo malgrado? – lo slogan degli ultimi trent’anni. Epoca di ibridazione e, al tempo stesso, di sostituzione: naturale e culturale, fisico e tecnologico che si fronteggiano, si mescolano l’uno nell’altro, si rifiutano a vicenda per poi, di nuovo, amalgamarsi nonostante cristallina sembri la loro allergia reciproca. Il cyberspazio, linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati, secondo la descrizione visionaria di Gibson, è il sintomo che qualcosa sta mutando e che questo qualcosa travolgerà totalmente, o forse ha già travolto a sua insaputa, l’uomo così come lo abbiamo storicamente conosciuto. Da una parte, l’umanesimo che deve incamminarsi verso una fine (Ihab Hassan); dall’altra, la disintegrazione dell’io, a cui ha brindato il postmoderno, prossima a confluire nella sua ricostruzione (Jeffrey Deitch). Il postumanesimo, qualunque cosa voglia effettivamente dire, nasce all’interno di queste caotiche suggestioni. Il suo vessillo è innalzato da chi – intento a rivoluzionare il mondo culturale per mezzo delle sperimentazioni letterarie, cinematografiche, scientifiche e filosofiche – trattiene a fatica il proprio ghigno sardonico, tra psichedelie assortite e «velocità di fuga» (Mark Dery).
Eppure, il concetto di ‘postumano’ è un concetto da prendere assolutamente sul serio. In esso confluiscono tanto le rivendicazioni rumorose delle minoranze, vale a dire di tutti coloro che – secondo il criterio del maschio bianco occidentale, ‘bello e buono’ – non hanno potuto per secoli far parte veramente della civiltà umanistica, quanto quelle silenziose degli animali non umani che hanno dovuto subire fino a oggi il principio arbitrario dell’antropocentrismo. Al tempo stesso, tale concetto viene sedotto dal desiderio di perfezionamento e di potenziamento, che solo le tecnologie odierne sembrano in grado di soddisfare. Con la conseguente diatriba tra chi nel ‘post-uomo’ vede semplicemente un essere migliorato rispetto al passato, in cui naturale e tecnologico si fondono insieme, e chi invece vede un’alternativa, un essere che si libera del naturale per veleggiare tecnologicamente in direzione di lidi eterni, paradisiaci, raggiungibili nel qui e ora.
Antonio Lucci, consapevole di quanto sia sfocato e di per sé contraddittorio il regno teorico del postumanesimo, decide nel suo libro Umano Post Umano di adottare una specifica strategia interpretativa e argomentativa, dalla quale far emergere i caratteri propri dell’antropologia. Bando all’asettica analisi concettuale, magari troppo dipendente da sterili ricostruzioni storico-filosofiche che lasciano il tempo che trovano: meglio elaborare immagini filosofiche e letterarie, per mezzo delle quali problematizzare il postumanesimo, mostrando al lettore che, sì, forse oggi abbiamo gli strumenti culturali e tecnologici per dire che siamo veramente postumani o lo stiamo veramente diventando, anche se – in effetti – è difficile sostenere di non esserlo sempre stati.
L’elemento vincente del testo di Lucci sono, senza ombra di dubbio, gli autori di riferimento: da Konrad Lorenz ad Alexandre Kojève, da Bernard Stiegler a Thomas Macho, da Philip K. Dick a Michel Houellebecq. Autori, cioè, che non sono così consueti – a parte Philip K. Dick – all’interno della letteratura filosofica italiana interessata alle vicissitudini postumane. E ciò rende il testo filosoficamente molto ricco, fornendo al lettore una serie di categorie concettuali e di riflessioni che gettano una luce inedita sui temi affrontati. Leggendo i numerosi spunti offerti dal libro, viene da pensare che tutte le rivendicazioni di cui si fa portavoce la variegata cultura postumanista facciano in effetti già parte della storia stessa del nostro essere umano da un punto di vista – potremmo dire – ontologico, solo che sono stati ben nascosti. Emerge implicitamente, tra le pagine, il carattere surreale della dialettica tra ciò che è ritenuto umano e ciò che è ritenuto invece postumano: in questione è sempre lo stesso soggetto, quello umano, che osserva se stesso con un malcelato sguardo bipolare. Lucci palesa chiaramente ciò in alcuni quesiti retorici posti nella parte iniziale del testo: «come parlare da dopo l’umano, permanendo umani? E ancora, quali categorie distinguono l’umano e il postumano, come rinvenirle, come elencarle? E non sono forse la categoria e l’elenco a loro volta umani, troppo umani per essere postumani?» (p. 13).