RECENSIONI / Lucia Arcuri
«Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo» (p. 85). In uno degli eserghi che scandiscono l’inizio dei capitoli del libro sono riportate alcune frasi tratte dalla lettera di Michele, giovane precario che ha posto fine alla sua vita nel 2017. Michele è una delle innumerevoli figure non figuranti, rappresentante esemplare dello status fantasmatico del suicida, di quanti, il più delle volte, compaiono solo nel computo annuale dei casi di morte violenta o nei rotocalchi. Quasi mai si riesce a rimuovere dal gesto la patina mediatica che lo ricopre e neppure si pensa alla matrice ultra-individuale del disagio che lo ha alimentato sino all’estremo. Il saggio di Carmelo Buscema delinea il tentativo di una indagine sociologica sul suicidio rintracciandone le cause nella società odierna e cercando di dimostrare come il sistema stesso oggi arrivi ad avallare questo atto, e lo riduca a scarto fisiologico necessario alla sua perpetuazione. Che si tratti di un atto volontario, di suicidio a fini terroristici, di costrizione involontaria alla morte per scampare ad una fine imminente e più terribile, la matrice originaria individuata da Buscema si cela in quel ‘male comune’ creato quotidianamente e che si manifesta, parafrasando Sloterdijk, da un lato come pressione consegnata ai soggetti dal capitalismo finanziario, dall’altra come connubio recto/verso di neoliberismo e terrorismo (p. 20). Macchinalmente controllata e compressa, la personalità risulta abbandonata ad una sofferenza incurabile e inconfessabile: ogni segnale potrebbe tradire sintomi di depressione da parte dell’individuo e quindi farne un essere difettoso e non produttivo.