Recensione di F. Leoni, L’automa. Leibniz, Bergson, Mimesis 2019

RECENSIONI / Enrico Redaelli

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Abbiamo sinora pensato il mondo come una macchina, è giunto il momento di pensarlo come un automa. Questa l’ardua sfida in cui si cimenta il libro L’automa. Leibniz, Bergson di Federico Leoni pubblicato da Mimesis nella collana «Canone minore». Ardua perché si tratta di pensare, con la scrittura che abbiamo in dotazione da quasi tre millenni, un mondo che nel frattempo ha ormai iniziato a funzionare sulla base di altre scritture. Pensare il mondo come un automa significa dunque, in prima battuta, sollevare il pensiero a quell’altezza vertiginosa che il mondo ha già da tempo raggiunto scrivendosi in forme nuove.

Da una parte abbiamo infatti la notazione alfabetica, che ci accompagna dalle origini della nostra civiltà e che ha forgiato la nostra mentalità, la nostra cultura umanistica, le nostre categorie teoretiche fondamentali. Dall’altra abbiamo le scritture moderne e ipermoderne che, dall’invenzione del calcolo differenziale sino alle reti digitali e satellitari, hanno riplasmato il mondo e lo hanno ormai reso inafferrabile ai nostri tradizionali strumenti di pensiero. Soggetto e oggetto, sostanza e accidente, parte e tutto, organico e inorganico: questi e altri mattoncini della nostra usuale grammatica mentale, in apparenza così solidi e rassicuranti, non sono più in grado di catturare e offrire alla riflessione critica un mondo fatto di limiti, soglie, flussi, gradienti e intensità. Eppure noi continuiamo a scrivere libri, seppure su supporti più leggeri e dinamici di un tempo, e sulla loro lettura fondiamo buona parte della formazione umana, quanto meno quella intellettuale; ci affidiamo sempre e comunque a testi fatti di frasi con soggetti, verbi e complementi oggetti e in questi termini continuiamo a ragionare. Non abbiamo infatti molti altri mezzi per «pensare» – nel modo in cui la filosofia, dai tempi di Socrate, ci ha insegnato a fare – l’operatività di scritture differenti, e oggi sempre più incisive, quali algoritmi ed equazioni differenziali. Tali scritture hanno accelerato e portato alle estreme conseguenze la rivoluzione iniziata più di quattro secoli fa con Copernico e Bruno, una rivoluzione che ha proiettato l’universo nell’infinito, mentre la nostra grammatica resta pur sempre una grammatica finita, basata su proposizioni del tipo «A è B». Pensare il mondo come un automa, dunque, anziché come una macchina, pone anzitutto un problema di stile, un ostacolo non dissimile da quella in cui s’imbatte Borges quando deve descrivere l’ineffabile Aleph: come piegare la forma alfabetica del libro e la sua logica proposizionale – per quanto vetusta, ancora indispensabile – al fine di cogliere ciò che a quella forma non si può adattare e a quella logica non si può assimilare?

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